Antica origine di Brognaturo

Brevi notizie storico-geografiche

Descrizione

(Si ringrazia Antonio Galloro)

Questo studio storico-geografico, volto ad illustrare l’ultramillenaria origine di Brognaturo, viene cordialmente offerto dall’Autore all’Associazione “Brognaturo nel cuore”, dietro cortese richiesta del suo Presidente, l’amico dr. Mimmo Giordano, perché, a beneficio dei suoi iscritti e di quanti mostrano interesse per la conoscenza della storia patria, veda la luce sul sito web dello stesso Sodalizio socioculturale.


DESCRIZIONE TOPOGRAFICA, MORFOLOGICA E NATURALISTICA DEL LUOGO

Brognaturo è un piccolo borgo rurale, posto ai piedi delle Serre vibonesi, a 755 m sul livello del mare. Si trova addossato, più esattamente, alle pendici del Monte Tramazza, sulla sponda destra del fiume Ancinale, il più lungo ed il più importante corso d’acqua dell’intero sistema montuoso delle Serre, che ha un bacino di 168 Km2 e che, dopo un tragitto di 34 Km, che ha origine nelle montagne di Serra San Bruno, in una zona ricca di acque sorgive, va, per dirla con Dante, ad «aver pace co’ seguaci sui» (Inferno, V, 99), cioè a sfociare, con i vari ruscelli, rigagnoli e sorgenti, che l’alimentano durante il suo non lungo cammino, nel Mare Ionio, in località Satriano, situata a sud del noto centro balneare di Soverato. Per una sua più esatta individuazione topografica, va ancora ricordato che Brognaturo si trova a tre chilometri di distanza da Serra San Bruno, in prossimità dell’attuale Strada statale 110, un tempo detta “Strada di Monte Cucco e Monte Pecoraro” (Baldacci 1954, p. 213), lunga 84 km, che, inerpicandosi faticosamente sull’impervia dorsale appenninica delle Serre vibonesi, ne collega il litorale tirrenico, più precisamente Bivio Angitola, con quello ionico reggino, in modo più
specifico Monasterace Marina. L’arteria stradale, di cui stiamo qui ragionando, è stata voluta espressamente da Ferdinando II, re delle Due Sicilie, il quale, mediante tale importante via di comunicazione, intendeva «potenziare l’industria siderurgica statale dei due stabilimenti calabresi di Mongiana e di Ferdinandea, che lavoravano in funzione di forniture militari ed in cui venivano prodotti strumenti bellici di notevole rilevanza e che suo nonno, Ferdinando I, aveva impiantato tra il 1782 ed il 1783. […] In Calabria, sorgeva, dunque, la più importante industria metallurgica del Regno borbonico e la produttività raggiunta dalle due Ferriere, nelle quali trovavano lavoro circa mille operai, ha fatto conseguire all’economia del territorio serrese e di tutto quello bruzio una posizione davvero ragguardevole, sia in campo qualitativo che quantitativo» (Galloro 2005, pp. 27-30; De Stefano Manno- Matacena 1979, pp. X, 22 e segg.; Galloro 1995a, pp. 3-4). Per questo fondato motivo, è stata anche detta “Strada della Mongiana”. La sua costruzione, sotto il profilo finanziario e della tecnica ingegneristica civile, è stata assai più costosa e complessa del previsto e ciò ha comportato che la sua realizzazione ha dovuto subire, inevitabilmente, un notevole ritardo, rispetto ai tempi calcolati nel progetto originario. Basti dire che la spesa complessiva dell’opera viaria è ammontata a circa 200.000 ducati e che, iniziata nel 1837, è stata completata solo alla fine del 1800 (De Stefano Manno-Matacena 1979, pp. 51, 140-151; Rubino 1990, p. 115). Le effettive ragioni di questa lenta e travagliata esecuzione vanno ricercate nelle enormi difficoltà di edificazione via via incontrate, imputabili alla particolare natura geomorfologia dei luoghi attraversati dal suo tracciato, ed al forte dislivello che tuttora il suo percorso è costretto a subire, passando bruscamente, nello spazio di pochi chilometri, da una quota di pianura costiera ad un’altra di collina ed, infine, con il superamento del crinale appenninico, a quella di alta montagna (Monte Pecoraro, 1400 m). Un andamento stradale così arduo ha richiesto, necessariamente, l’edificazione di opere murarie ardite e di notevole mole, come ponti, muri di sostegno e di contenimento, frequenti tornanti ripidi e stretti, scavati con estrema difficoltà lungo i duri fianchi delle alture, che contribuiscono, così, a rendere disagevole ed oltremodo pericoloso la sua percorribilità (Galloro 1995a, p. 4; Idem 1995b, pp. 5-6; De Stefano Manno-Matacena 1979, pp. 51, 140-151). Brognaturo è collocato in una delle tante antiche conche lacustri, di origine quaternaria, formatesi tra le pieghe dei terreni, che, ancora oggi, caratterizzano l’aspetto morfologico della Calabria, in cui le acque hanno dovuto soggiornare per lungo tempo, prima di riuscire ad aprirsi un varco e defluire verso il basso (Cortese 1895, p. 193). È situato, più precisamente, in quella modesta depressione, che, nel massiccio delle Serre, riguarda l’alta valle dell’Ancinale e che confina con altri vuoti o cavità, in cui sono adagiati i centri urbani di Serra San Bruno, Simbario, Torre di Ruggiero e Cardinale (Algranati 1929, p. 167; Cortese 1895, p. 194). Si tratta della «piccola conca di Lacina, che risulta particolarmente caratteristica dal punto di vista fisico, per il suo invaso completamente delineato nel complesso della massa granitica […] (e che) con le sue piccole dimensioni […] sintetizza i caratteri morfologici di tutte le conche della Serra» (Baldacci 1954, pp. 13-16).
Altri studiosi, invece, la indicano come “Conca di Spadola”, specificando che si tratta di «quella che millenni addietro racchiudeva forse un lago di montagna, da cui in seguito le acque sfuggirono»
(Valente 2004, p. 436). Noi, in verità, propendiamo per la prima definizione, ma nella più esatta e completa dizione di “Conca di La Lacina”, intendendo, così, meglio specificarne e sottolinearne la legittima appartenenza geografica all’omonima zona serrese in cui si trova, “La Lacina” appunto, che, oltre ad essere alquanto selvosa e montuosa, è anche assai vasta, tanto da estendersi fino al versante ionico.


GENESI DEL NOME “BROGNATURO”

Nelle fonti antiche, che noi abbiamo consultato per attendere alla redazione di questo lavoro, del nome di questa località abbiamo rinvenuto diverse varianti: «Brognatore», «Brognatura»,
«Brognaturi», «Brogniatore», «Broniaturo», «Brugnatore», «Brugnaturo» (Giustiniani 1969, p.382, sub voce; Mazzoleni 1968, p.146; Mancuso 1979, pp. 239 e 244, nota n. 30; Rohlfs 1974, p. 30, sub
voce; Valente 2004, p. 436, sub voce; Barillaro 1976, p. 19, sub voce) ed, infine, anche «Vrugnaturu», intesa non solo come forma dialettale (Rohlfs 1974, p. 30), ma anche italiana (Accattatis 1963, p. 99).

Anche l’origine del nome “Brognaturo” è alquanto incerta ed, intorno ad essa, nel tempo, sono state formulate varie ipotesi, che qui, sinteticamente, esponiamo. Il linguista tedesco G. Rohlfs (1974, p. 30, sub voce), che fa risalire il termine al secolo XVI, ad esempio, spiega che esso potrebbe derivare
dai suoi antichi abitanti, «Brognaturi», che erano dei porcai, così detti perché suonavano la “brogna”, una specie di grossa conchiglia, di provenienza marina, di cui si servivano per chiamare a raccolta le loro mandrie di maiali.

Dello stesso parere è un altro attento studioso della lingua calabrese, G. Alessio (1939, p. 55, sub voce «brońa»), il quale, a distanza di un decennio, riprendendo l’argomento in un altro suo scritto (Battisti-Alessio 1950, p. 607, sub voce «brògna»), specifica, ulteriormente, che il termine «brògna (vrògna)» è una voce del latino volgare, che deriva da quella classica eburnea, la quale, a sua volta, è un aggettivo sostantivato, cioè usato da solo, senza il nome al quale si riferisce.

Il sostantivo omesso è bùcina e, con l’intera espressione «bùcina eburnea», veniva designata, letteralmente, in tempi assai remoti, la «tromba o corno d’avorio» o, più semplicemente, in un’accezione più ampia, un qualsiasi strumento a fiato, non proprio d’avorio ma bianco come questa sostanza, come, ad esempio, una conchiglia marina allungata, a forma di chiocciola o di spirale, che, per il particolare suono cupo che era capace di emettere, veniva adoperata dai pastori e dai bovari, per adunare, quando giungeva la sera o quando le varie necessità lo richiedevano, i loro armenti, che, sin dal primo mattino, erano stati lasciati sparsi nei campi, a pascolare (Varrone, “De re
rustica”; Columella, “De re rustica”). Tuttavia, nell’antica Roma, la bùcina veniva utilizzata anche in campo militare e, nell’armamentario dell’esercito, costituiva, generalmente, una tromba di bronzo (aenea), di forma ricurva, molto simile al nostro corno da caccia, con cui venivano suonati dei segnali militari, corrispondenti a dei ben precisi ordini impartiti dal generale (Livio, Ab Urbe condita, passim). Se, poi, volessimo risalire all’origine del termine “bùccina” e provassimo ad analizzarne l’etimologia, ci accorgeremmo facilmente che le parole latine che lo compongono (bos =“bue” e cano =”suono”) rivelano, in maniera inequivocabile, il tipo di materia, da cui lo strumento veniva ricavato, che era costituito appunto da un corno di bue.

La spiegazione etimologica di G. Rohlfs, secondo cui Brognaturo era un sito di porcari, non può che richiamarci alla memoria quella fornita dallo stesso glottologo per l’assai vicino paese di Simbario, alla quale può essere benissimo accostata, definito «luogo di zimbe» ovvero “di porcili” (1974, pp. 323, sub voce, e 380-381, sub voce «zimba»). Anche per O. Baldacci (1954, p. 80 e nota n. 127) «l’abitato di Simbario, nell’alta valle dell’Ancinale, a m 760, potrebbe aver tratto la sua denominazione dall’allevamento di suini, ivi effettuato tuttora in grossi branchi, allo stato semibrado».

Del resto, come ben attestano molte fonti storiche, a Simbario, nei secoli passati, la crescita di maiali ed il commercio della sua carne erano delle attività così diffuse e praticate dalla popolazione locale da costituire una buona risorsa economica ed una sicura fonte di guadagno per tutti (Barilaro 1982, p. 158, nota n. 75). Entrambi i toponimi, “Brognaturo” e “Simbario”, dunque, si richiamano e fanno esplicito riferimento all’occupazione, cui, prevalentemente, un tempo si dedicavano i loro abitanti, vale a dire all’allevamento suino.

Si tratta, forse, di una fortuita coincidenza, determinata dai medesimi favorevoli fattori ambientali, che permettevano, meglio che in altre zone, un più diffuso e redditizio pascolo di maiali, o può rinvenirsi, invece, in questo identico genere di attività, di fondamentale importanza economica per quanti vi si applicavano, una comune origine storica dei due piccoli centri agricoli, se non, addirittura, un rapporto di derivazione o discendenza e, quindi, di dipendenza dell’un borgo rurale nei confronti dell’altro? È molto probabile, dunque, che proprio a questo voglia alludere il redattore delle poche note storiche su Brognaturo, che sono state poi raccolte nel lavoro curato da F. Cirelli (1859, pp. 227-228), allorquando sostiene che questo casale «in origine non ha dovuto essere altro che la riunione di mandriani e di guardiani di porci dei vicini paesi, che ivi stabilirono le loro capanne».

Ad ogni modo, al di là di altre specifiche ragioni, che meriterebbero di essere investigate più attentamente, sicuramente all’esercizio di una così conforme pratica non devono essere state estranee né la natura silvestre del territorio né la ricca vegetazione del terreno, resa particolarmente prospera dal clima montano di quell’area geografica, ed, in modo particolare, devono avere svolto, nell’intera zona, un ruolo di primo piano «gli estesi querceti (che) consentivano un tempo un
prospero allevamento di suini» (Valente 2004, p. 437).

Brognaturo ed il viciniore abitato di Simbario hanno, pertanto, un’uguale origine agro-pastorale e non «nascono come emanazione diretta di Serra S. Bruno, con la fusione di insediamenti rurali nel
quadro dell’opera di colonizzazione intrapresa dalla Certosa», come qualche ricercatore ha voluto supporre alcuni decenni fa (Fabbri-Saba 1965, p. 72). Quali, poi, siano stati i suoi futuri rapporti con la Certosa di Serra, questo costituisce un altro tema, che esula dall’argomento principe, che si vuole trattare in questa sede.

Poco convincente e plausibile, al contrario, si rivela la spiegazione etimologica fornita nei secoli scorsi, più precisamente verso la fine del Cinquecento, da G. Barrio (Mancuso 1979, p. 239), nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae (De Angelis, Roma, 1571). L’erudito prete francicano, così definito perché nato a Francica, paesino posto a pochi chilometri di distanza da Monteleone (oggi Vibo Valentia), infatti, nella sua descrizione dei luoghi della Calabria, nel menzionare il villaggio di «Broniaturo» - così lo chiama - , annota che il suo nome significa luogo «che osserva i tuoni».

Tale interpretazione, successivamente, oltre ad essere stata pedissequamente seguita da tutti quegli studiosi locali, che, dal nome del loro Maestro, vengono giustamente definiti “barriani”, è stata anche riproposta, in tempi a noi assai vicini, da G. Valente (2004, p. 436, sub voce), in cui, però, per un banale, ma comprensibile, errore tipografico, consistente nella sostituzione della lettera consonantica “t” con la “b”, leggiamo «buoni» al posto del più corretto «tuoni». Pur accogliendo per giusta la prima espressione («che osserva i tuoni»), di essa, tuttavia, non sapremmo dare una razionale spiegazione, a meno che non vada letta, interpretata e riferita al nostro borgo come «un sito, che aduna, attira i tuoni». In tal caso, la locuzione avrebbe un senso logico, che si legherebbe alle particolari condizioni climatiche di Brognaturo e farebbe esplicita allusione alle sue peculiarità atmosferiche di paese di alta montagna, sottoposto, nel periodo invernale, durante l’infuriare e lo scatenarsi di violente tempeste, al frequente rombo di tuoni ed allo scoppio di funesti fulmini.

L’origine di questa singolare condizione fisica del casale potrebbe risiedere, a sua volta, nella specifica natura geologica e magnetica del terreno su cui insiste, che attrarrebbe, soventemente, con grave pericolo per i suoi abitanti, le scariche elettriche atmosferiche. Non è un semplice caso, infatti, che, quasi un secolo fa, uno studioso locale, nel tratteggiare le caratteristiche ambientali essenziali del nostro centro rurale, tra i suoi tanti fattori metereologici, abbia voluto porre l’accento proprio sulle «furenti tempeste montane», cui da sempre è soggetto (Cirillo 1960).

Ultimo aggiornamento: 17/06/2025, 10:51

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